INQUADRAMENTO GENERALE DEL PROBLEMA
Il 2024 si è chiuso con la firma di diversi rinnovi contrattuali contestati, dai portuali ai lavoratori delle Funzioni centrali dello Stato. Le proteste che salivano da quest’ ultimo comparto si sono clamorosamente manifestate con la valanga di NO al contratto, 98%, nel referendum promosso da USB, CGIL e UIL e sdegnosamente rifiutato dalle organizzazioni firmatarie (la Cisl, come di consueto, e varie sigle del sindacalismo autonomo), che hanno arrogantemente ignorato l’ esito della consultazione.
Nel 2025 dovranno essere rinnovati altri contratti nazionali, sia del settore pubblico che di quello privato. Ma in quale contesto?
Tutti i centri di ricerca hanno documentato da tempo una situazione drammatica.
Malgrado il liberismo abbia favorito da decenni i profitti rispetto al lavoro in tutti gli Stati dell’OCSE, il nostro Paese è l’ unico in cui si sia verificata e purtroppo consolidata una diminuzione dei salari e degli stipendi reali.
Il sistema contrattuale è infatti in Italia ancorato da più di trent’anni alle rigide regole della “politica dei redditi” e gli adeguamenti salariali sono stati sistematicamente tenuti sotto il livello dell’inflazione reale.
Non è possibile prevedere aumenti veri.
Questo meccanismo ha prodotto un abbassamento generalizzato dei redditi da lavoro.
La crisi da Covid prima e quella dovuta all’impennata dei prodotti energetici in seguito all’aumento delle tensioni internazionali, hanno dato il colpo di grazia. Tutto il sistema economico ha rallentato e le fasce di povertà si sono sempre più allargate.
Pesa sul sistema contrattuale anche una scarsa considerazione per le elementari regole della democrazia.
Rinnovi ritardati di anni, rappresentanze sindacali scadute da tempo ma ancora in carica, accordi e contratti non sottoposti all’approvazione dei lavoratori , esclusione dalla contrattazione di quei soggetti sindacali che non firmano i contratti nazionali sono solo alcune delle storture che hanno alimentato in questi anni il sistema di relazioni sindacali.

RIFLESSI A BRESCIA DELLA SITUAZIONE
In una situazione simile avere un lavoro stabile e regolare non mette al riparo dalla povertà.
Questa realtà a livello nazionale è stata attestata dal “Rapporto di obiettivi di sviluppo sostenibile 2024” dell’ Istat. In base ai dati raccolti, risulta che in Italia le persone in condizione di povertà assoluta sono oltre 5,7 milioni, pari al 9,8%.
Nel 2023, inoltre, circa 13,4 milioni di persone residenti in Italia, anche lavorando, si trovavano a rischio di povertà o di esclusione sociale.
Tutto ciò significa che il “lavoro povero” è diventato pressoché la normalità non solo a causa degli “accordi pirata al ribasso”- come denunciano i sindacati confederali- ma per il meccanismo generale della contrattazione instaurato dagli inizi degli Anni Novanta.
Attraverso calcoli e proporzioni si può stimare che nel Bresciano approssimativamente circa 60.000 tra lavoratrici e lavoratori siano poveri.

Va da sé che i lavoratori stranieri siano i più esposti. Quasi un quarto di essi si ritrova in condizioni di miseria.
Anche le donne, che hanno salari più bassi con posizioni lavorative inferiori, quindi pensioni inferiori, sono pesantemente colpite da questa dinamica e con esse, in una sorta di drammatico contrappasso,i maschi separati o divorziati.
Altra categoria fragile è quella delle famiglie di lavoratori con figli a carico minori di 14 anni. Per tali famiglie il rischio dello scivolamento in una condizione di povertà è quotidianamente dietro l’ angolo.
Non stupiscono più di tanto, quindi, gli allarmi frequenti lanciati dagli enti caritativi e delle associazioni filantropiche laiche e religiose del Bresciano. Queste organizzazioni da tempo denunciano l’aumento costante degli assistiti alle mense pubbliche o attraverso la distribuzione di pacchi con generi di prima necessità.
STATISTICHE FARLOCCHE SULL’OCCUPAZIONE
I dati trionfalistici che vengono sbandierati dal Governo Meloni sull’aumento dell’ occupazione sono dunque completamente fuorvianti.
Anche perché nel calcolo degli occupati vengono fatte rientrare persone che magari hanno lavorato un giorno in un mese!
“VERSO LA PIENA SOTTOCCUPAZIONE“
Inoltre, dagli inizi del Duemila ad oggi, salari e stipendi degli Italiani hanno visto diminuire del 18% il potere d’ acquisto.
Solo negli ultimi cinque anni, l’inflazione ha causato la perdita di 8.500 euro per i lavoratori. Per mettersi alla pari con il tasso di inflazione, gli aumenti in busta paga dovrebbero essere di 350-400 euro, cosa impensabile visto il sistema politico-sindacale vigente che è stato programmato per raggiungere l’ obiettivo opposto.
O si firmano contratti pessimi, o non si concludono contratti.
Così chi lavora ha un salario netto medio di 1.300 euro. Ma poiché gli aumenti dei prezzi dei beni di prima necessità sono sotto gli occhi di tutti, è facile capire perché sia molto facile ritrovarsi poveri lavorando.
RESPONSABILITA’ PRECISE: UNA RICOSTRUZIONE STORICA
Esiste una spiegazione specifica del perché in Italia si è arrivati a questa situazione.
Si tratta di scelte economiche operate dalle classi dirigenti e di politiche sindacali portate avanti dagli apparati di funzionari delle maggiori organizzazioni dei lavoratori.
Negli Anni Sessanta importanti leader di quest’ ultime- forti dell’ appoggio dei grandi partiti storici della classe operaia (PCI, PSI)- avevano teorizzato i “salari come variabile indipendente” da qualsiasi compatibilità con le esigenze del “mercato” e la “rigidità della forza-lavoro” che richiedeva la flessibilità dell’ impresa per fronteggiare la concorrenza, non viceversa.
Ciò aveva reso possibile la stagione di vaste lotte e conquiste operaie passata alla storia con la denominazione di “Autunno Caldo”.

A partire dalla seconda metà degli Anni Settanta tuttavia lo scenario cambiò radicalmente.
Il primo ad introdurre il concetto di “moderazione salariale” fu nel 1977 l’allora segretario della CGIL Luciano Lama.

Da allora la linea fondamentale del sindacalismo concertativo confederale non cambiò più.
Si verificò anzi un ulteriore peggioramento provocato dalla “rigidità monetaria”, introdotta dai governi di centrosinistra della fase crepuscolare della “Prima Repubblica”, che dal 1980-1981 rese impossibili le svalutazioni competitive della lira.
Dal 1992 in poi, il tutto si cristallizzò in un vero e proprio “sistema” incardinato sull’ abolizione della scala mobile e sulla “concertazione”.

Questo fenomeno si intrecciò strettamente con il disfacimento della cosiddetta “partitocrazia” travolta dalle inchieste di Tangentopoli, con il procedere inesorabile del percorso che avrebbe portato alla costituzione dell’ Unione Europea così come oggi la conosciamo insieme alla sua moneta unica e con la scomparsa anche a livello simbolico delle forze politiche che storicamente avevano rappresentato gli interessi delle classi lavoratrici.
Così, negli ultimi trent’ anni, anche in presenza di cicli economici positivi, non si sono registrati cicli contrattuali che abbiano condotto ad incrementi reali di salari e stipendi. Tanto più che i contratti nazionali vengono conclusi ormai solo ex-post gli aumenti provocati dall’ inflazione, per il calcolo della quale, a partire dal 2018, sono stati detratti anche i costi energetici.
A rendere praticamente impossibile una reazione significativa dei lavoratori sono state inoltre le leggi antisciopero estremamente restrittive nel pubblico impiego e nei servizi. Esse non hanno riscontro negli altri Paesi europei.
Con la prossima approvazione del ddl 1660, le forme di protesta da sempre praticate nel corso delle lotte contrattuali (picchetti, blocchi stradali e ferroviari) saranno equiparate addirittura a reati penali punibili con anni e anni di carcere.
COME RISPONDERE?

Dinanzi a questo scenario, occorre praticare una rottura da parte dei lavoratori che parta da quattro assunti fondamentali:
- l’ introduzione per legge del salario minimo;
- il ripristino della democrazia sindacale con il diritto alla rappresentanza anche per i sindacati che si rifiutano di firmare contratti indecenti;
- l’abrogazione delle normative antisciopero accumulatesi nel corso dei decenni;
- l’avvio di una politica economica completamente diversa da quella attuale.
DARIO FILIPPINI