CINQUE ANNI FA
Esattamente cinque anni fa l’Italia piombava in lockdown.
Nella notte tra l’8 e il 9 marzo 2020 il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in diretta nazionale, annunciava un provvedimento shock:
“Sto per firmare un provvedimento che possiamo sintetizzare con l’espressione: ‘Io resto a casa’: non ci sarà più una zona rossa, non ci sarà più la zona uno e e la zona due della Penisola, ci sarà l’Italia zona protetta”.
Nei giorni immediatamente precedenti si era registrato il primo caso di Covid anche a Brescia.
Mentre si faceva affidamento sui medici e sugli infermieri “eroi”, sui balconi comparivano striscioni con gli arcobaleni e la scritta “Andrà tutto bene”.

Poi gli scaffali vuoti, le code fuori dai supermercati per fare la spesa, i bollettini quotidiani con la conta dei contagi e dei morti regione per regione .

Imparammo a conoscere i Dpcm (i Decreti del presidente del Consiglio dei ministri). L’ “appuntamento” con Giuseppe Conte, che illustrava il proseguimento delle misure restrittive, divenne un “classico” delle settimane degli Italiani.
LE FASI DELLA PANDEMIA
Il lockdown produsse i suoi effetti. La curva dei contagi scese. Fu possibile affrontare l’estate 2020 quantomeno in (quasi) libertà.
Con l’arrivo dell’inverno – e il sopravvenire di una nuova risalita – arrivarono i vaccini, che furono somministrati a partire dal 27 dicembre 2020.
Ed iniziò una nuova fase, fatta di altre restrizioni e contestazioni.
Fu l’ epoca del Green Pass, strumento fortemente criticato non solo dai contrari al vaccino, ma anche da molti altri.

La situazione con il passare del tempo finalmente si normalizzò. Il 31 marzo 2022 vennedichiarata la fine dello stato di emergenza in Italia.
Un anno dopo, il 5 maggio 2023, la stessa decisione fu presa dall’Oms.
STRASCICHI POLITICI DEL COVID
La questione Covid rimane attuale, però, a Brescia così come nel resto della Lombardia. Non solo perché il virus (nettamente depotenziato) circola ancora, non solo per le implicazioni politiche e legali.
Tralasciamo le vicende e le polemiche legate all’ istituzione, il 14 febbraio 2024, della Commissione d’ Inchiesta parlamentare sulla gestione dell’emergenza sanitaria.
Sorvoliamo sull’ abolizione, sancita nel decreto Milleproroghe del gennaio 2025, delle multe per l’inosservanza dell’obbligo vaccinale.
Il Governo Meloni infine ha approntato un nuovo piano pandemico, che prevede l’eventuale possibilità di ricorrere a restrizioni alla libertà personale solo in alcuni casi e unicamente di fronte a una “pandemia di carattere eccezionale”, ma senza ricorrere ai Dpcm.
LA CRISI DELL’ “ECCELLENZA SANITARIA LOMBARDA”
La questione Covid è ancora attuale, dicevamo, perché ha messo a nudo la realtà di un sistema sanitario venduto come “modello di eccellenza”.
Con la pandemia, infatti, in Lombardia, è emersa tutta la fragilità e l’iniquità di un’ organizzazione fondato sui grandi ospedali e sul depauperamento dei medici di base e dei servizi infermieristici essenziali nel territorio.
Un modello costruito pervicacemente nel corso di circa un trentennio, a partire dai governatorati di Formigoni con tutti gli scandali annessi e connessi, per proseguire con le Giunte leghiste di Maroni e Fontana.

Tale modello scaturisce da una visione della società e dell’ economia secondo cui anche la salute fa parte del “mercato”.
Partendo da un simile presupposto, il luogo migliore per fare “affari” con la salute è l’ ospedale, non il territorio. Quest’ ultimo è considerato solo un costo, perché una sanità incardinata sui medici di base e sui distretti del servizio pubblico nazionale è per sua natura più egualitaria e meno redditizia.
Negli ospedali e nei centri di ricerca lombardi troviamo perciò l’ eccellenza, ma nei territori l’ assoluto depauperamento.
E anche negli ospedali, un conto è arrivarci attraverso il SSN con i suoi lunghissimi tempi di attesa, un conto andarci con il “privato”…
Così le lobby sanitarie, nel “modello lombardo”, hanno potuto prosperare grazie ai profitti ricavati dalla costruzione di grandi ospedali, dagli acquisti di macchinari sanitari sempre più costosi (in questo senso indicativo è il boom della cardiochirurgie sovradimensionate con sale operatorie dispendiosissime ma chiuse perché inutili).
I MEDICI DI FAMIGLIA DALLA PANDEMIA AD OGGI
Eppure, di fronte alla fragilità del “sistema ospedalocentrico”, tra coloro che nei giorni drammatici del Covid furono tra i principali protagonisti nel far sì che la rete sanitaria non collassasse, abbiamo trovato proprio i medici di base.
Ancora oggi tuttavia essi sono pochi, oberati di lavoro, soffocati da compiti burocratici.
E l’ultimo report della Fondazione Gimbe (Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze), reso noto il 4 marzo, è impietoso anche per Brescia e per il suo territorio.
Sempre più cittadini faticano a trovare un medico di famiglia; e a fronte di migliaia di pensionamenti, il numero di giovani medici che scelgono questa professione continua a diminuire, con una popolazione sempre più anziana e malata.
Vista la situazione, sarebbe fondamentale supportare la rete territoriale. Invece il quadro è tutt’ altro che rassicurante.
Dei 1.525 medici base mancanti, secondo le stime dell’associazione, in Lombardia, 120 lo sono nella provincia di Brescia. Ciò sta mettendo circa 150.000 assistiti in difficoltà,
Ci sono peraltro differenze tra zona a zona. La città, ad esempio, risulta più appetibile e quindi ancora sufficientemente coperta, mentre le valli, e specialmente la Valsabbia, sono territori ormai disagiati.
Il massimale di 1.500 assistiti viene superato dal 74% del totale dei medici lombardi (media nazionale 51%), mentre il numero medio per ogni assistito è pari a 1.529 (media nazionale 1.374). A volte si arriva anche a 1.700, 1.800.
A ciò si aggiunga che ci sarà anche un boom di pensionamenti nei prossimi anni.
Con numeri del genere è evidente che l’ emergenza non è stata superata dopo la pandemia, ma rimane una realtà.
DUBBI SULLA RIFORMA DELL’ ASSISTENZA TERRITORIALE
D’ altra parte, lo schema della riforma varata con la Legge Regionale n. 22 del 14/12/2021, che vedrebbe i medici di base a turno impegnati nelle “Case di Comunità”, non convince gli operatori sanitari. Molti di essi ritengono che anch’ essa contribuirebbe a far perdere quella capillarità che è alla base del loro lavoro.
Portare un bacino esagerato di pazienti ad una “Casa di Comunità”, riducendo i dottori al ruolo di “funzionari”, li costringerebbe a svolgere niente più che il minimo compito indispensabile, spersonalizzando il rapporto con i pazienti stessi.
Senza contare che gli anziani dei piccoli Comuni, che ora sono nella condizione di raggiungere l’ ambulatorio del medico in maniera tutto sommato agevole, dovrebbero avere bisogno di un mezzo di trasporto per arrivare al grande centro territoriale.
Ma siccome a questo punto è chiaro che comunque il medico di base da solo non ce la fa, secondo molti addetti ai lavori sarebbe meglio creare libere forme associative avanzate che permetterebbero di fare rete davvero. Non sarebbe, insomma, la stessa cosa della “Casa di Comunità”.
PROSPETTIVE DELLA SANITA’ BRESCIANA (E NON SOLO) CON IL “REARM EUROPE“
In questa situazione già così problematica, il recentissimo annuncio del ReArm Europe apre nuovi scenari ancora più foschi.

L’Europa della difesa comune implica una rapida e impegnativa riconversione del sistema produttivo dei vari paesi europei verso gli armamenti.
Sintetizzando al massimo, ma senza andare contro la verità, si può affermare che in Italia tale riconversione avverrà in larga misura a spese dello Stato, con le commesse pubbliche, come del resto è avvenuto in periodo crispino, giolittiano e fascista.
Da dove proverranno queste risorse? La Bce è stata chiara: dal finanziamento del debito militare che sostituirà le altre spese pubbliche. Quindi dai tagli al Welfare.
Bisogna aggiungere due elementi.
Il primo è costituito dal fatto che nella fase iniziale la riconversione bellica non sarà sufficiente a riarmare l’Europa, che dovrà comprare armi americane.
Il secondo elemento si lega alla finanziarizzazione. La montagna di commesse pubbliche rivolte alle industrie delle armi farà lievitare il prezzo delle loro azioni che saranno così le più appetibili ed entreranno nei portafogli di banche ed assicurazioni, del resto legittimate dall’urgenza della difesa, con buona pace di anni di battaglie contro le “banche armate”. Tale lievitazione dei prezzi è del resto funzionale alla ritirata degli Stati sociali: se si spende in armi, bisogna tagliare sanità e pensioni, ma a tali tagli si può supplire con polizze private che fanno la gioia dei grandi fondi.
SANITA’ BRESCIANA E MANIFESTAZIONE INTERVENTISTA DEL 15 MARZO A ROMA
Allora, per esempio, andare in piazza il 15 marzo a Roma, in Piazza del Popolo, per difendere l’Europa, in nome della libertà, auspicando una prospettiva migliore, vuol dire accettare una radicale trasformazione delle gerarchie valoriali e delle strutture economiche, che davvero ha poco a che fare con le battaglie referendarie sui diritti o sull’inclusione sociale.
Andare in piazza con lo schieramento politico-sindacale di centrosinistra significa pensare che l’Europa abbia bisogno – come ha scritto qualcuno – di “nuovi guerrieri” che difendano gli ospedali, il personale sanitario e i pensionati dai “cattivi”.
Ma in realtà si tratta di uno sforzo vano perché, nel frattempo, ospedali e pensionati non ci saranno più, neppure quelli del futuro.
Senza contare che, mentre la piazza dell’Europa si è trasformata nella Fortezza Bastiani del Deserto dei Tartari, i Paesi Baltici e la Polonia potrebbero pensare che tutto questo riarmo debba essere messo rapidamente a frutto.
SANITA’ BRESCIANA E MANIFESTAZIONE PACIFISTA DEL 15 MARZO A ROMA
Però, quello stesso 15 marzo, sempre a Roma è prevista una mobilitazione alternativa in piazza Barberini, che indica la possibilità di lavorare assieme per la pace, il welfare, la salvaguardia della democrazia e contro la repressione e la limitazione delle libertà prevista da vecchi e nuovi pacchetti sicurezza.

Convergere con tutte le bandiere della pace, con quelle delle nostre lotte, con le bandiere della Palestina e di tutti i popoli oppressi, tenendo fuori tutti i simboli che oggi vengono usati per spingerci alla guerra, sembra la scelta più coraggiosa, saggia, giusta e ponderata a “Potere al Popolo!”, che infatti è tra i promotori della mobilitazione.
FILIPPO RONCHI